
Come si beve il caffè in Africa?
Il continente africano è letteralmente sconfinato: 54 Paesi, 1,2 miliardi di persone, migliaia di culture e tradizioni differenti da Nord a Sud e da Est a Ovest. Sbagliando, spesso immaginiamo l’Africa come un monolite unico, una realtà romanticamente omogenea, piuttosto che una terra fatta di popoli, storie e abitudini diversissime tra loro.
Fatta questa breve premessa risulterà forse più facile capire perché in quel continente il caffè si può bere in decine di modi diversi.
Grazie alle antiche vie carovaniere – che nel corso dei secoli hanno attraversato deserti e foreste – il caffè è arrivato in ogni angolo dell’Africa, dando vita alle ricette più svariate e originali.
In Marocco troviamo il Café des épices, speziato e aromatizzato con sesamo, pepe nero e noce moscata.
Il Café touba invece è tipico del Senegal e i suoi inventori raccontano di una bevanda dalle capacità curative; il pepe longorum e l’aglio con i quali questo caffè viene preparato sembrano avere infatti ottimi effetti depurativi e stimolatori. Il rito di preparazione del Café touba poi è antico di settecento anni ed è collegato alla tradizionale medicina ayurvedica.
Se parliamo di ritualità però, nessun Paese africano può eguagliare in termini di sacralità la preparazione del caffè etiope, il Buna.
Ricordiamo che l’Etiopia è la patria della coffea arabica, nonché il luogo d’origine del ‘rito del caffè’ per come lo concepiamo oggi (sebbene declinato nelle sue mille sfumature).
Per preparare il Buna il caffè verde viene prima tostato su carboni ardenti in un braciere, poi è tradizione annusare il fumo aromatico che si diffonde nella stanza, infine avviene la macinazione dei chicchi in un mortaio di legno. Conclusa la prima fase, il caffè macinato viene messo nella jebena, una speciale anfora in ceramica che serve per la bollitura. Quando il caffè sarà pronto se ne verserà un po’ in una tazza per raffreddarlo, poi verrà messo nuovamente nella speciale caffettiera; a questo punto sarà arricchito da zenzero grattugiato e alla fine del rito – che può durare anche più di un’ora – il caffè sarà versato in modo che la polvere resti depositata sul fondo.
Il Buna viene servito tre volte in tazzine piccole e senza manico, che devono essere riempite fino all’orlo: il primo giro si chiama Awel (ed è per i padri), il secondo Kale’i (viene offerto alle madri), il terzo Bereka (riservato ai bambini e segno di benedizione degli invitati). Una cerimonia a tutti gli effetti, che per gli etiopi è simbolo di ospitalità e di profondo senso di amicizia.
Mentre in Madagascar il caffè selvatico locale (la mascarocoffea) è minacciato dall’uomo a causa della deforestazione, in Egitto sopravvivono ancora i bayt qahwa – caffè che fungono da circolo letterario, salotto politico e luogo di contrattazione.
Se è vero che in Africa possiamo sperimentare moltissimi modi di preparare (e bere) il caffè, c’è una cosa che invece accomuna tutti i Paesi di cultura araba che si trovano nel continente: in ognuno di essi si può trovare senza difficoltà il Qahwa, il secolare caffè arabo.
Una bevanda diffusa tra i beduini del deserto e servita ritualmente in ogni occasione di convivialità.
Caratterizzato da una preparazione lenta e minuziosa, viene fatto bollire nella dallah – una brocca in metallo con coperchio e beccuccio.
Simbolo di accoglienza per eccellenza, tra i suoi ingredienti troviamo cardamomo, fiori d’arancio o di rose, cannella, chiodi di garofano e un pizzico di zafferano.
Si beve amaro e in tazze piccole mai riempite oltre la metà; inoltre può essere accompagnato da datteri, frutta candita e secca, che fanno da dolce contraltare al gusto puro di questo particolare caffè.
In quale continente saremo nel prossimo viaggio? Un indizio: dovremo attraversare l’Oceano Indiano.
[to be continued…]